Sono nato nel 1931 in Toscana, quando c'era la campagna, c'erano i grilli e le lucciole, e d'estate tra profumi di frutta le cicale stordivano i sordi. Mi sono accorto di me scoprendo il cielo dal giardino di una piccola casa, a Pescia, tra una collina verde d'ulivi e la vista aperta, oltre gli orti di un convento, sulle ultime case della città, a valle del fiume.
C 'era luce, silenzio, pace.
I giochi con i cugini, rari, erano una festa; ma anche da solo stavo bene. Guardavo il cielo, avevo da fare e c'era un fratello più piccolo.
Del dopo ricordo la noia della scuola, la tristezza dei collegi, i traslochi, le angustie di mia madre, la guerra, gli sfollamenti. Ma anche il verde e i silenzi della montagna, le corse tra i viottoli e i fossi della piana; e le scorribande nei frutteti, tra i soldati tedeschi, i cannoneggiamenti, il passaggio del fronte, l'attesa e l'arrivo rumoroso e felice degli americani.
Il freddo, gli stenti, le scarpe di legno, la ricerca di un tetto non erano tutto. Neppure i due giovani visti appesi ai lampioni della chiesa di Montecatini, e neppure i crimini nazisti, commessi tutto intorno, e il sapere poi dell'atomica e degli stermini nei lager, che per anni mi terrificarono e a lungo mi distolsero dal sonno.
Il peggio è stato dopo il passaggio del fronte. Da una stanza all'altra di case diverse, con quattro carabattole, un gatto e due quaderni, la vita normale degli altri era un'offesa alla fame ed alla mancanza d'ogni cosa. Più del digiuno e delle inquietudini dell'età, a urlare la rabbia era lo sgomento della giovinezza sprecata, l'essere fuori dal mondo.
Nel 1946 siamo sfollati a Roma, e sono ricominciati gli anni di collegio, quattro da convittore e quattro da istitutore, passando dopo gli esami di maturità dai banchi alla cattedra delle stesse stanze. E' stato allora, in quei lunghi anni senza fine, che di notte ho cominciato a sognare quello che di giorno non si poteva aspettare.
Così mi sono ritrovato grande, senza saperlo e senza esserlo. Nel '49 ho conosciuto otto ore mio padre, che di lì a poco se n'è andato del tutto.
Nel chiuso del collegio ho avuto tempo per riflettere. Speravo anche e confidavo nell'intuito; ma c'era la paura, tanta, di non farcela. Inoltre, ero sempre più scosso da voglie e sentimenti, per i quali - raggiunta finalmente la maggiore età - negli sprazzi di tempo libero correvo e sognavo come un pazzo. Da istitutore ho studiato, ho conosciuto Roma, mi sono appassionato a tante cose, ho vissuto con gioia momenti di fede, è tornata la fiducia nella vita, mi sono sentito più sicuro di me.
Un mattino, per ribellione all'ennesima angheria, ho piantato su due piedi il lavoro del collegio. Non avevo esperienza di sorta, ma un giorno dopo l'altro ce l'ho fatta, e allora in breve ho capito la lezione un po' incosciente che premia il coraggio e il credere in sé stessi e in ciò che si fa.
Al momento giusto ho conosciuto mia moglie, e il resto forse potrebbe dirlo lei, che a volte mostra di conoscermi meglio di me.
Quello che manca lo dico in due parole.
Ogni momento della vita può comprenderla tutta, poi che niente sfugge a come è stata la prima età.
Roma, 1999
da PAROLE E IMMAGINI d'ieri ed oggi, Roma 2002, pp. 7 - 8
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