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Valter Vannelli _ Città e luoghi della Toscana / Ambiente, architettura, caratteri

Pescia

dedico questa pagina alla cittadina ed ai luoghi che fino al dopoguerra, ottobre 1946, mi hanno visto ragazzo.

Roma, 10 gennaio 2007
agg. 2009




     Ogni volta aveva ritrovato la casa che era stata sua prima della guerra e aveva ripercorso le strade e le piazze della cittadina toscana da dove - nell'autunno del 1946, dopo il Referendum, l'elezione dell'Assemblea Costituente e l'amnistia voluta da Togliatti - con la madre e il fratello era partito per Roma, in cerca di fortuna. Vi tornava ad ogni morte di papa, per una scappata, e non cercava i parenti, ché gli bastava sapere di loro. Quella volta, un giorno d'ottobre sereno come allora, anche l'ultimo tra fratelli e sorelle della madre non c'era più, da anni. Ne era sgomento.
     Erano un riferimento, e con l'immaginazione era solito interloquire a distanza con questo o con quello. Per ripicca, è vero; ma pure per i ricordi di una stagione sempre più lontana, legata alla guerra e alla giovinezza, che non voleva perdere e che infine avrebbe voluto ridestare con l'ultimo di loro. Per questo ne era stato male.
Non avrebbe potuto fare a meno di ricordare; pur sapendo che, per quanto gli premesse, quel passato segnato da paure, fame, menzogne e violenze, era scomparso con chi non c'era più a condividere con lui la memoria di vicende nazionali che avevano un senso profondo pure tra quelle familiari.
     Quell'epoca, degli anni '40, dagli effetti protratti fino alla caduta del Muro di Berlino, ed oltre, già non era la stessa per i suoi coetanei, allora ragazzi come lui. Meno ancora, trascorso quel secolo, poteva essere dei giovani d’oggi, nipoti di una generazione scomparsa, che di quella guerra anche civile e della lotta di classe che ne era scaturita non avevano visto nulla; e che, se ne sapevano qualcosa, del senso anche umano di quel momento storico avrebbero finito per perdere o cancellare tutto.
     Fu così che si mise a scriverne per sé - della giovinezza, della guerra e del dopoguerra - e scoprì cose avvenute, che lui stesso aveva visto e udito; ma che prima, per il distacco che allontana ogni esperienza dalla sua riflessione, non aveva saputo. Ancora una volta ricordi, sogni e desideri lo avevano preso per mano e scritto per lui cose che sapeva vere; immagini della memoria che prima non conosceva, non come a distanza di tempo infine si sgranavano da sole, quasi che fossero state loro ad attendere lui, e non la sua penna a disegnarle nel modo in cui gli sembrava fossero state.
     Anche il nome del protagonista - Luca - era tornato così, da echi di richiami di madri in stanze di un presente che non é più.
    Roma - Firenze, 2003 / ’05

da :  Valter Vannelli, "1946 E DINTORNI. Immagini della memoria"
Iride-Rubbettino Editore, settembre 2006











     La guerra era davvero finita

     A un anno dalla fine di un conflitto mondiale, dalle sue crudeltà, paure e sofferenze, e dalle speranze e delusioni del dopo, le ferite più profonde erano quelle della pace. Anche per Luca. Lui, a maggio, aveva compiuto quindici anni. Non era più un ragazzo. Dopo i collegi, i traslochi e gli sfollamenti con la madre e il fratello, c’era stata la guerra vissuta da vicino; quella tra gli alleati bloccati nella piana lungo l’Arno e i tedeschi trincerati sulla linea gotica; e l’altra, quella civile, senza un fronte e senza tregua, tra fascisti e antifascisti. Il terrore, la violenza e l’egoismo anche vigliacco del prossimo ne avevano fatto un giovane consapevole; un giovane anche sicuro di sé, che non faceva a meno di sognare. Come tanti della sua età, maneggiava ordigni e residuati abbandonati nei fossi, obici, polvere da sparo e altro. E non aveva difficoltà a interloquire con i grandi; ma parlare con una ragazza lo metteva in soggezione, e un turbinio d’immagini lo confondeva, distraendolo da ciò che faceva o diceva. Vedeva ed era distratto. Pensava e intanto immaginava. Da qualche tempo, e non solo di giorno, avvertiva turbamenti e scombussolamenti tanto lucidi da esserne cosciente anche nel sonno. Erano il segno che stava crescendo e cambiando, nel fisico e nella mente; e che, come tutto intorno a lui, doveva aspettare.

     Sperduto nella folla accalcata di traverso alla lunga piazza del centro, Luca aveva ascoltato Nenni e altri candidati alle elezioni, venuti qua, si diceva, non solo da Pistoia e Firenze, ma anche da Roma. Di quelle cose non capiva più di tanto, ma n’era partecipe, ché bene o male si trattava del suo presente, e ancor più del suo futuro.
     C’era, anche in lui, il desiderio di buttarsi alle spalle le paure e i tormenti della guerra, il terrore dei rastrellamenti, l’orrore delle rappresaglie e dei tanti appesi ad un filo di ferro, padri e figli, non era un anno, agli alberi del viale lungo il fiume; e l’incubo dei bombardamenti e delle corse ai rifugi, nelle notti cupe illuminate dai bengala e dai lampi di quel fronte dell’Appennino che sembrava non cedere mai.
     In quelle stagioni già trascorse dall’aprile 1945 era cambiato tutto. La guerra era davvero finita, e questo era l’essenziale. Si stentava a crederci. Un rombo sordo, un colpo secco, una voce concitata, specie di notte, bastava per trasalire e spiare nel buio dalla finestra; come se ancora ci fossero il coprifuoco e l’oscuramento, e magari la guerra si fosse mai potuta vedere da lì; o per uscire e sapere. Per chi poteva, il volume alto della radio sui notiziari serviva anche a questo, a rassicurarsi che era proprio così, era finita. E tuttavia questa certezza non bastava ad allentare l’angoscia e le sofferenze dei tanti, per i quali il bisogno di fiducia e di speranza, l’una e l’altra legate a un destino comune, restava sospeso all’attesa di una persona, del ritorno a una casa, o anche soltanto a una condizione meno disumana. C’era quindi un nesso tra quei sentimenti che sapeva comuni, che Luca viveva ogni giorno con la gente, in coda come lui per un pezzo di pane, e i discorsi e comizi che si accendevano ovunque, a ogni angolo e occasione.
     A distanza di mesi, la solidarietà sortita contro un nemico comune per liberare e riscattare il paese impegnava le stesse forze nella sua ricostruzione. Così sembrava.
     Erano due generazioni, di padri e figli, reduci dai fronti e campi di prigionia della guerra segnata dall’Armistizio e da quella, anche partigiana, di Liberazione. Erano i dispersi sfuggiti a rastrellamenti e rappresaglie, i giovani non più ragazzi, che per libera scelta, o costretti dalle circostanze, si erano dati alla macchia e alla lotta clandestina; e i sopravvissuti ai campi di sterminio nazisti, alle prigioni di quelli di Salò, alle detenzioni e purghe di paesi nemici e divisi.
     C’erano, infine, i mutilati, militari e civili. E i familiari, quelli dei renitenti alla leva fascista e gli altri, degli ostaggi d’ogni età e condizione, catturati, deportati, torturati e uccisi da milizie, brigate e masnade d’ogni risma. Tra le speranze degli uni e i timori degli altri, lo si sapeva, lo si diceva, stava nelle attese della gente che, passato il fronte, tornati dalla macchia o discesi dalle montagne, uomini e donne - braccati per mesi da nazisti e repubblichini - si sentissero legittimati dalla lotta e dai morti ammazzati a fare i conti con gli oppressori d’ieri; e con chi, avendo responsabilità pubbliche come monarchici e badogliani, a suo tempo non aveva preso partito contro i tedeschi.
     Non meno, c’era da vedersela con torturatori, cecchini e delatori, che lungo la valle dell’Arno e a ridosso delle montagne tra Firenze e il mare, avevano praticato o fiancheggiato la guerra civile e le sue atrocità. Era pure diffusa l’attesa che nell’assegnare incarichi, alloggi e lavoro ci si ricordasse il disimpegno e l’ambiguità di quanti erano restati alla finestra per rivendicare, poi, vecchi diritti e nuovi favori. Come tra gli squadristi dopo la Marcia su Roma, lo ricordavano i vecchi, non tardarono infatti a comparire i partigiani dell’ultima ora e i patrioti del giorno dopo; gli uni e gli altri non i più ritrosi nello sventolare fazzoletti, nel mostrare bracciali e coccarde, nel vantare meriti.


    

    


     Nelle case si sentiva del tale epurato, del tal’altro soggetto a ritorsioni, e di questo o quello al quale era andata anche peggio; come pure del notabile compromesso, che protetto dal partito sarebbe uscito deputato. Sembrava non esserci più un luogo senza una rappresentanza dell’ordine, o un comitato che in nome della lotta per la liberazione non ne vantasse i diritti.
     Nondimeno, assenze, incertezze e ambiguità non rassicuravano affatto. Dalle loro parti la gente non aveva visto che qualche ragazza con la testa rapata e dei fascisti malmenati; ma si era sentito d’altro. Da mesi, chi tornava con la coscienza poco pulita da un campo di concentramento, o da una prigione, era meglio dormisse ad occhi aperti. Né poteva sentirsi al sicuro chi, avendo da perdere, si era lasciato dietro qualcosa di sbagliato; che poco gli sarebbe valso l’essersi rimesso in lizza.
     Erano ancora desti i principii, i sentimenti, le emozioni; non meno, i rancori e il desiderio di vendetta. Tuttavia, così come poco per volta le violenze perdevano consensi e sostegni, pure le rivendicazioni più attese incontravano resistenze crescenti nella ricucitura tra interessi e intrecci parentali, nelle leggi rilette come prima, e in un clero attivo e di parte, inteso a smorzare e placare. Giorno dopo giorno, insomma, era cresciuta pure la voglia di uscirne, di farla finita e tornare a vivere. Rispetto agli strascichi della guerra fratricida, tutto questo sembrava scontato e normale, e la politica pareva dovesse servire a porvi rimedio o a metterci un freno; ma a nessuno che vivesse di poco la possibilità di un cambiamento pacifico e civile sembrava davvero facile, e meno che mai a portata di mano.

     Da ogni parte gli scontenti non si contavano. Sbollita l’emozione del ritorno a casa – un milione e trecentomila persone, in condizioni penose, dai paesi più diversi - reduci e dispersi erano in difficoltà, non meno dei nemici d’ieri, fascisti e repubblichini. Alcuni nel reinserirsi in famiglia; i più nel trovare un lavoro, o nel riconoscersi in un ambiente diverso da prima d’andar soldato. Erano problemi reali, che tra delusioni e rancori, tra frustrazioni e senso d’impotenza, acuivano altri disagi e ampliavano le rimostranze per le vicende individuali sofferte in guerra. Sembrava, a volte, che solo l’essere stati in armi, al fronte o in montagna, o prigioniero, desse diritto a qualcosa. Come se a casa, sotto le bombe, tra il terrore e la fame, si fosse patito di meno.
     C’era poi chi da quella guerra non sarebbe tornato; e le loro famiglie, quelle che lo sapevano e quelle che in ansia, sempre più angosciate, lo temevano. Le paure e i patimenti, insomma, erano tanti; tanta era la gente che ancora soffriva davvero; e tanta l’angustia e lo scombussolamento di vecchi e giovani senza un tetto, senza pane e senza pace.
     Tali erano dunque le angosce e le sofferenze che, a un anno e oltre dalla fine della guerra, le ferite più profonde erano davvero quelle della pace.
     Luca, che ci stava dentro come gli altri, non ne sapeva di più, ma una cosa l’aveva vista. Le donne si erano sobbarcate della casa e dei figli, e l’avrebbero continuato a fare, come sua madre. Per qualcosa di malvagio insito nella natura, o nella concezione di quel poco di mondo che conosceva, la guerra e l’abbandono erano una cosa da uomini, come per suo padre. E quel tarlo lo rodeva.

Ognuno diceva la sua

     Dalla Liberazione, riprese le pubblicazioni, anche Luca seguiva i titoli sui quotidiani affissi nella bacheca della minuscola rivendita posta di sbieco a piazza Mazzini. Il giornale, di quattro pagine, costava una lira; e lo stanzino del giornalaio era lo stesso che Luca avrebbe ritrovato, uguale, quasi sessant’anni dopo, se possibile più grigio, con la griglia metallica sulla bacheca delle testate, poggiata come allora di sbieco allo stipite della porta, sul selciato. Da mesi Luca era iscritto alla sezione giovanile socialista, e ne avrebbe conservato la tessera, mai rinnovata né sostituita con altre, con tanto di sovrastampa "Costituente 1946". Gli piacevano quei simboli del lavoro sostenuti da un libro aperto, sul profilo di officine dai camini alti e sottili. C’era, per lui, quello che ci doveva essere, l’essenziale. Un mondo così, senza fronzoli e pellicce, senza gente a bighellonare e a far mostra di sé, come già si tornava a vedere, avrebbe dato dignità a quel piccolo ambiente anche insulso e compiaciuto, dal quale spesso si sentiva circondato.
     Luca ci credeva e lo riteneva giusto. Aveva pena per chi stava peggio di lui e s’immedesimava nella gente della quale conosceva da vicino fatiche, travagli e bisogni; o della quale comprendeva le difficoltà e l’indecorosa, immeritata miseria. E poi, la Sinistra non stava bene alla Chiesa; né più e né meno di come - da quando aveva cinque anni e per la Cresima un prete, per inculcargli il senso del peccato, lo aveva terrorizzato - la Chiesa non stava bene a lui.
     Tuttavia Luca amava la sua libertà, e ci teneva, per poco che gli desse; se non altro per dire quel che gli pareva. Per questo aveva in uggia ...

     da :  Valter Vannelli, "1946 E DINTORNI. Immagini della memoria"
       Iride-Rubbettino Editore, settembre 2006









edizione 10 gennaio 2007
agg. 2007, 2009

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ROMA, ARCHITETTURA _ La città tra memoria e progetto / 1998
ROMA, ARCHITETTURA _ Da città dei papi a capitale d'Italia / 2001




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